Scipio Slataper - Il mio Carso (1921) [Pdf Epub Mobi Ita] [TNTvillage]
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Scipio Slataper - Il mio Carso (1921) [Pdf Epub Mobi Ita] [TNTvillage]
Scipio Slataper
Il mio carso
Autore : Scipio Slataper
Titolo: Il mio carso
Lingua: Italiano
Genere: romanzo autobiografico
Edizione: Libreria della Voce
Anno: 1921
Fonte: Liber Liber – Progetto Manuzio
Dimensione del file: 5,79 MB
Formato del file: Pdf Epub Mobi
Il romanzo
Il romanzo si sviluppa in modo frammentario attraverso tre parti. La difficoltà nel riferirne la trama sta proprio nel fatto che la narrazione non si distende in modo continuo, ma fluisce attraverso frammenti privi di chiara connessione cronologica. In prima persona, attraverso l’accostamento dei ricordi e delle riflessioni, Scipio-Pennadoro (traduzione italiana dello slavo Slataper) comincia il racconto della propria esperienza di vita partendo dalle prime immagini della memoria: le riunioni familiari, i parenti, la vita in campagna nelle estati della preadolescenza. Dalle “battaglie” estive intraprese durante i bagni dal gruppo di ragazzini della banda “Dagli” contro i villeggianti tedeschi, al racconto della storia d’amore campestre con Vila, la nipote del padrone di casa della famiglia del narratore, ragazza desiderata da molti, e che scacciata dallo zio scatenerà per la prima volta la furia distruttiva di Scipio, che si unirà a Ucio (uno spasimante di Vila) in una devastante scorribanda notturna.
Ma la vita estiva non è destinata a finire: il ragazzino riesce ad evitare il ritorno alla scuola grazie ad un’anemia cerebrale esagerata ad hoc, quando il medico, pur intuendo la vera natura di quel male, non può che arrendersi e prescrivere vita selvaggia.
È allora che comincia l’esperienza in Carso, la prima unione con la natura vissuta come presa di coscienza della propria energia vitale. Questa prima armonia si chiude con la “calata” verso la città di uno Scipio più maturo, che ha preso coscienza della triste condizione dell’esistenza contemporanea nella evoluta quotidianità cittadina, una vita che non conserva ricordo della pienezza selvaggia del Carso. Sul finire della prima parte egli discende dal monte Kâl verso Trieste, e per la prima volta lo vediamo mescolarsi al grigiume laborioso (sanamente laborioso) della vita.
Nella seconda parte il narratore racconta del suo tentativo di partecipare alla “normalità” dell’esistenza. Eccolo recitare il ruolo del fidanzato di una brava ragazza come tante, ed eccolo provare ad accostarsi all’associazionismo irredentista. Qui si fa poi spazio alla rievocazione delle vicissitudini familiari, lo zio avventuroso, la madre “dolorosa” e forte, le difficoltà economiche, il suo tentativo di impiegarsi nel commercio. A questo punto si approfondisce l’estraneità dal tutto, con il ribrezzo verso i piaceri borghesi e l’esperienza degradata dell’eros. In fine, il narratore intraprende la strada del giornalismo dapprima teatrale, poi, mutato lo scenario, lo ritroviamo in una Firenze letteraria fra amici letterati da cui si sente irrimediabilmente diverso. Così si conclude la seconda parte, con l’abbandono dello studiolo e l’ascesa mattutina verso il gelo del monte Secchiata coperto di neve, dove ritroverà intatta la forza viva della natura della sua infanzia.
Nell’ultima parte intuiamo subito che qualcosa di terribile e misterioso è accaduto. Scipio, come Zarathustra dopo aver ascoltato la voce dell’indovino, è colto da una profonda tristezza e arriva a dubitare della propria ragione: la donna amata, l’essere con cui avrebbe dovuto fondersi, è morta, si è tolta la vita, e la colpa non può che ricadere su di lui che non ha saputo comprenderla e salvarla. I frammenti dipingono ora la vita degli uomini come un’incomprensibile assurdità, e anche la laboriosità della città, anche l’attività febbrile del lavoro diviene qualcosa di assurdo, addirittura ridicolo. Ed ecco allora che il narratore ritorna sul Carso, ritorna a fare i conti con la natura selvaggia che lo aveva forgiato per domandare a lei una spiegazione dell’insensatezza della vita e della morte. Sono frammenti in cui si avverte continua la presenza di colei che non è più, e in cui Scipio, mescolandosi con la terra, si domanda il senso dell’esistenza e del nulla.
Ma alla fine, attraverso la discesa negli abissi più bui della sostanza dell’essere, in cui si imbatte nell’aspetto terribile che è l’altra faccia della gioia insita nella natura, egli guadagna la certezza dell’impossibilità di venire a capo del mistero di un’esistenza cui non ci si può rifiutare di appartenere. È così che ritorna in città, rigenerato, finalmente deciso ad assumersi intero il peso della vita nel dolore e nella gioia, amando e lavorando.
La vita
Scipio Slataper nacque a Trieste il 14 luglio 1888 e morì sul Monte Podgora il 3 dicembre 1915. Di ascendenze italiane e boeme, come egli stesso lasciò scritto nella sua opera principale Il mio Carso, si trasferì a Firenze per studiare. Qui si laureò in Lettere, con una tesi su Ibsen. Tornato a Trieste, nel settembre 1913 sposò Gigetta Carniel da cui ebbe un figlio cui fu dato il nome Scipio, arruolato nella Divisione Julia e disperso in Russia durante la ritirata (1942-1943).
Pur essendo stato inizialmente molto critico nei confronti delle tesi irredentiste, allo scoppio della prima guerra mondiale si arruolò volontario, come molti altri triestini, nel Regio esercito italiano raggiungendo il grado di sottotenente nel 1º Reggimento dei "Granatieri di Sardegna" e morì al fronte combattendo sul monte Podgora (toponimo sloveno della località Piedimonte del Calvario, ora nel comune di Gorizia). Per il suo sacrificio gli fu concessa la medaglia d'argento al valor militare.
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